È davvero paradossale questa società che impone l'obbligo scolastico, insegna a tutti a leggere e a scrivere e poi bacchetta quelli che si esprimono. Perché oggi scrivere, a meno che tu non sia uno scrittore noto e sostenuto da case editrici, è considerato nel migliore dei casi un atto di vanità, una sfrontatezza.
Vale la pena precisare che qui non ci si riferisce allo scrivere post sui social o a esternare opinioni di pancia, come spesso si intende nel discorso pubblico. Parliamo piuttosto della scrittura creativa, riflessiva, trasformativa, quella che non cerca l’approvazione immediata, ma un contatto più profondo con sé stessi e, a volte, con chi legge. Una scrittura che non si esaurisce nella reazione istantanea, ma che prende forma nel silenzio, nella revisione, nella solitudine. E proprio per questo, oggi, sembra fuori posto.
Benedetto Croce diceva: «Fino a diciotto anni tutti scrivono poesie; dopo possono continuare a farlo solo due categorie di persone: i poeti e i cretini». Una frase che, per quanto ironica, echeggia ancora tra i professionisti del campo culturale ed editoriale. Se possiamo comprendere la visione di un intellettuale morto negli anni Cinquanta, più difficile risulta tollerare una visione del genere ancora oggi. Siamo continuamente esposti a luoghi comuni: “In Italia tutti scrivono e nessuno legge”. Ma è davvero così? E anche ammesso che lo sia, perché dovrebbe essere un problema? La frase suona come un’accusa vaga, quasi un rimprovero culturale, ma non si interroga mai sul perché scrivere sia diventata un’attività così diffusa, né su cosa significhi davvero leggere.
Il punto è che si tende a sovrapporre due pratiche profondamente diverse, come se scrivere fosse semplicemente l'altra faccia della lettura. Ma non è così. Leggere implica accogliere un pensiero altro, farsi attraversare da una voce esterna. Scrivere, invece, è un atto di estrazione: significa entrare in contatto con la propria intimità, dare forma a emozioni che rischiano di rimanere astratte, dare un ordine provvisorio al caos dell’esperienza. Chi scrive non lo fa necessariamente per essere letto, ma per capire qualcosa di sé o del mondo. Scrivere può essere un gesto di cura, di resistenza, di liberazione. Pretendere che tutti coloro che scrivono debbano anche essere lettori forti è come dire che chi suona uno strumento debba essere anche un esperto ascoltatore di musica classica. Le due cose possono coesistere, certo, ma non si implicano automaticamente.
Invece di disprezzare il desiderio diffuso di scrivere, forse dovremmo interrogarci sul perché leggere sia diventato così difficile. Forse il problema non è che “tutti scrivono”, ma che il sistema culturale è incapace di ascoltare senza gerarchie o filtri. E allora si scivola nel disprezzo, nell’ironia, nel fastidio. Come se l’espressione personale fosse un abuso, anziché un diritto.
Spesso, quando uno scrittore riesce a esprimere qualcosa che ci risuona dentro, lo definiamo “geniale”, come se fosse dotato di una qualità inaccessibile. Il più delle volte non si tratta di genialità: piuttosto quella persona ha avuto il coraggio — o la necessità –– di dire qualcosa che noi non osiamo ammettere nemmeno a noi stessi. L’ammirazione per il genio può diventare un alibi, una distanza di comodo: ci solleva dal dovere di confrontarci con le nostre stesse parole inespresse.
Il paradosso è ancora più profondo se consideriamo che la scrittura, pur essendo una delle competenze fondanti dell’educazione, viene declassata a passatempo narcisistico non appena oltrepassa i confini dell'utilità funzionale. Scrivere, sì, ma solo per firmare contratti, redigere email o riempire moduli. Oltre quel limite, si entra nel territorio del sospetto: scrivi per esprimerti? Per raccontare il tuo mondo interiore? Allora, attenzione, potresti sembrare ridicolo.
In questa società dell’esposizione continua, dove ogni gesto viene documentato, monetizzato, condiviso, la parola autentica, quella non finalizzata al consenso immediato, viene guardata con diffidenza. Ci si può mostrare, ma non rivelarsi. Ci si può vendere, ma non donare. E la scrittura, quando nasce come atto gratuito, rischia di essere liquidata come patetica ostentazione. È un clima che scoraggia il rischio e inibisce l’onestà emotiva. Si preferisce il contenuto “giusto”, ben impacchettato, accettabile per algoritmi e pubblico. Scrivere diventa una forma di adeguamento e non di ricerca. E chi scrive per cercarsi o interrogarsi viene tacciato di ingenuità o, peggio, di dilettantismo.
Ma forse, il vero fastidio che provoca chi scrive liberamente è proprio questo: che lo faccia senza chiedere il permesso. Senza il sigillo dell’autorevolezza accademica o del successo commerciale. In un’epoca in cui tutto deve essere autorizzato o validato, la voce autonoma disturba. Perché ricorda che l’espressione, quella vera, non ha bisogno di giustificazioni.
Eppure una brutta poesia non ha mai ucciso nessuno, a differenza del silenzio, e scrivere resta uno degli atti più umani che esistano. Scrivere significa credere che il proprio sentire abbia dignità, che la propria esperienza, pur piccola, possa entrare in dialogo con quella degli altri. Non per insegnare qualcosa, ma per condividere una vibrazione. Ed è questa vibrazione che, quando la riconosciamo in un altro, ci commuove. Non perché sia geniale, ma perché è viva, e ci fa sentire meno soli.
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