C'è una stretta affinità tra gli scrittori self-publisher e i musicisti lo-fi. Entrambi, spinti da un'esigenza espressiva che non aspetta l’approvazione delle grandi strutture produttive, si muovono ai margini dell' industria. L’affinità sta nell’indipendenza creativa, nelle strategie fai-da-te, nel desiderio – a volte quasi ostinato – di produrre e condividere opere senza mediazioni o compromessi. In entrambi i casi, si tratta di autori che scelgono di lavorare con i mezzi a loro disposizione, spesso limitati, ma sufficienti per comunicare una visione, un suono, una voce.
Tuttavia, esiste una differenza importante – e significativa – sul piano culturale, nel modo in cui queste due forme di espressione indipendente vengono accolte. Nel mondo musicale la critica e l’industria hanno da tempo elaborato una grammatica di accoglienza per la produzione indie. L’autoproduzione, nel contesto musicale, è spesso percepita come una scelta estetica o politica, non come una mancanza. Nessun musicista, nessun critico musicale, nessun addetto ai lavori – almeno secondo la mia esperienza – guarda con sospetto o con sufficienza un album autoprodotto. Anzi, è frequente trovare recensioni entusiastiche dedicate a band sconosciute, a musicisti che registrano in cameretta, con mezzi rudimentali ma con un’identità sonora definita. La qualità della registrazione, o della performance, può anche essere imperfetta, ma viene distinta con lucidità dal valore compositivo e dall’originalità dell’opera.
Esistono moltissime manifestazioni, festival, rassegne, trasmissioni radiofoniche e spazi web che celebrano la musica indipendente. John Peel, storico DJ della BBC, è diventato una figura di culto proprio per aver saputo ascoltare e proporre registrazioni grezze, scarne, che poi si sono rivelate seminali. Il suo fiuto per l’autenticità ha contribuito a creare un vero e proprio linguaggio condiviso attorno all’idea che il valore artistico non risieda necessariamente nella perfezione tecnica.
Il mondo editoriale, invece, fatica a digerire con la stessa naturalezza gli autori indipendenti. La figura del self-publisher è spesso circondata da un alone di sospetto, come se la scelta di pubblicarsi da soli fosse sintomo di mancanza di qualità, piuttosto che di autonomia. Le imperfezioni formali, inevitabili quando si lavora fuori dai circuiti professionali, non vengono quasi mai accolte con indulgenza. L’idea che un’opera possa contenere valore letterario pur in assenza di editing professionale, distribuzione ufficiale o approvazione da parte di un editore riconosciuto, fatica a imporsi nel discorso critico. Anche per questo, le manifestazioni dedicate alla letteratura indipendente sono scarse, poco visibili, spesso relegate a nicchie autoreferenziali.
In sostanza la musica lo-fi è ormai parte integrante del paesaggio culturale e riconosciuta come una forma legittima di espressione, invece l’editoria indipendente resta spesso ai margini, priva di una vera legittimazione culturale. Eppure, in entrambi i casi, si tratta di territori fertili, capaci di produrre opere autentiche, nuove, necessarie.
Questa disparità di accoglienza tra musica e letteratura indipendenti non è casuale, ma affonda le radici in una serie di fattori storici, politici e sociali che hanno plasmato in modo diverso il rapporto tra pubblico, critica e industria nei due ambiti.
La musica pop e rock – e più in generale la musica contemporanea – ha attraversato fin dagli anni Sessanta una rivoluzione culturale che ne ha ridefinito lo statuto. La musica, eletta a linguaggio di protesta, spesso politicizzata e messa al centro delle controculture, dei movimenti giovanili, ha legittimato l’idea che la forma e il contenuto potessero essere indipendenti dalla tecnica e dai canoni classici. I cantautori hanno spostato l'attenzione sui testi e sono riusciti ad avere grande seguito anche, a volte, disponendo di doti vocali limitate o scarsa padronanza dello strumento con il quale si accompagnavano. Il valore autentico veniva identificato nella “voce” dell’artista, nel suo messaggio, nella sua urgenza comunicativa, più che nella perfezione dell’arrangiamento o nella qualità della registrazione. Questo approccio ha creato un terreno fertile per l’indipendenza artistica, riconoscendo dignità espressiva anche a opere tecnicamente “imperfette”. Il punk, il lo-fi, l’indie rock – tutti movimenti con una forte componente DIY (fai-da-te) – hanno ulteriormente consolidato questa sensibilità, rendendo la musica un campo dove l’autoproduzione è spesso sinonimo di autenticità.
Il mondo letterario, al contrario, è rimasto più legato a un’idea borghese e accademica dell’autore e dell’opera. La figura dello scrittore è stata storicamente associata a un processo di selezione, validazione e mediazione operato dall’editoria tradizionale. Pubblicare un libro ha sempre comportato il superamento di barriere simboliche e materiali: la valutazione di un comitato editoriale, l’intervento di un editor, l’inserimento in un catalogo. Questo processo è stato interpretato per decenni come garanzia di qualità, trasformando l’editore in una sorta di “filtro culturale” che certifica il valore dell’opera. Il titolo di scrittore è ancora oggi una investitura. L’autopubblicazione, di conseguenza, viene ancora percepita da molti come una scorciatoia o come un atto narcisistico, invece che come un’alternativa legittima. È una percezione che ha radici profonde, e che riflette anche una certa gerarchia sociale: il libro come oggetto “alto”, la musica come forma “popolare”.
C’è poi una dimensione economica da considerare. La democratizzazione degli strumenti di produzione musicale (dai primi quattro piste fino alle moderne DAW) è avvenuta in parallelo a una trasformazione profonda dell’industria discografica, che ha dovuto adattarsi a una crescente decentralizzazione. Al contrario, l’editoria ha mantenuto a lungo strutture verticali e centralizzate, con una forte concentrazione del potere decisionale in pochi grandi gruppi. Anche se le piattaforme di self-publishing hanno ridotto le barriere d’accesso, la mentalità dominante è ancora legata all’idea di “legittimazione” dall’alto.
Il pubblico stesso è stato educato in modi diversi. L’ascoltatore medio ha imparato a considerare normale – e persino desiderabile – un certo grado di ruvidità, di imperfezione sonora, associandola all’onestà dell’artista. Il lettore, invece, è stato abituato ad associare il libro alla qualità formale, alla correttezza linguistica, alla revisione professionale. In mancanza di questi elementi, l’opera letteraria rischia di essere scartata in partenza, anche se contiene idee forti o uno stile originale.
La differenza di trattamento non è solo una questione di gusti o mode, ma il risultato di una lunga stratificazione culturale. Superare questo squilibrio significa anche lavorare su un cambiamento di mentalità collettiva, riconoscendo che il valore di un’opera può nascere anche fuori dai circuiti ufficiali e che l’autenticità non ha bisogno del permesso di nessuno.
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